Gli allevamenti e le filiere della produzione animale sono spesso sotto accusa perché accusati di essere tra i più impattanti sul riscaldamento globale, dove le emissioni di CO2 rappresentano la maggiore causa. Tuttavia, i nuovi dati pubblicati su una recente ricerca scientifica condotta in Italia mostrano un panorama decisamente differente da quello che si vuole mostrare nella comunicazione di massa. Vediamo perché nei punti salienti.
L'impatto sul riscaldamento delle emissioni di metano (CH4), calcolato utilizzando le metriche proposte dall'Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), che misurano il suo potenziale di riscaldamento globale in 100 anni (GWP) espresso in equivalenti di anidride carbonica (CO2e), rappresenta l'impatto maggiore nelle filiere della produzione animale a livello globale e nazionale.
Un lavoro scientifico, recentemente pubblicato da un team di ricercatori italiani, utilizza una nuova metrica proposta da un gruppo di fisici dell’atmosfera di Oxford e pubblicata su Nature per considerare la differenza tra gli inquinanti climatici a vita breve (SLCP), quali il metano (CH4), e gli inquinanti climatici a vita lunga (LLCP), quali l'anidride carbonica (CO2), sul riscaldamento globale. In sintesi, i ricercatori di Oxford hanno trovato che se un gas serrigeno permane in atmosfera poco tempo, il suo effetto riscaldante si riduce se le emissioni di questo si contraggono, ma che l’effetto è invece fortemente negativo se le emissioni di questo gas aumentano.
Più precisamente, le nuove metriche misurano l'effetto di riscaldamento equivalente (we) rispetto a quello della CO2 in un determinato periodo di tempo (il riscaldamento globale potenziale o Global Warming Potential, GWP*), che si differenzia dalla metrica utilizzata correntemente (il GWP) perché tiene conto proprio del fatto che il metano residua in atmosfera per poco tempo (dopo 50 anni è praticamente sparito), mentre l’anidride carbonica resta in atmosfera per oltre mille anni.
Il lavoro dei ricercatori italiani applica le nuove metriche (GWP*) alle emissioni di CH4 di tutte le filiere zootecniche italiane e lo confronta con il GWP finora utilizzato (anche dalle istituzioni pubbliche) per una valutazione annuale e cumulativa dal 2010 al 2020 dell'impatto di questo gas sui cambiamenti climatici. Utilizzando i dati ufficiali pubblicati dall'Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ISPRA) dal 1990 al 2020, i dati mostrano che quasi tutte le specie, ad eccezione del bufalo, hanno evidenziato minori emissioni di metano, alcune addirittura negative, con il maggior ridimensionamento per i bovini da carne (-54 milioni di tonnellate di CO2we calcolate con il GWP* rispetto a +66 milioni di tonnellate di CO2e stimate con il metodo GWP).
Il contributo cumulativo totale della produzione zootecnica italiana al riscaldamento globale negli ultimi 10 anni, comprese le emissioni di protossido di azoto (N2O) l’altro gas a effetto serra emesso dalle filiere zootecniche, è stato fortemente negativo (-49 milioni di tonnellate di CO2we) rispetto ai dati calcolati con il metodo GWP (+206 milioni di tonnellate di CO2e).
In conclusione, il lavoro pubblicato dagli studiosi italiani, mostra che l'applicazione della nuova metrica GWP* alle emissioni di CH4 di tutte le filiere delle produzioni animali italiane ha permesso di identificare meglio il ruolo del patrimonio zootecnico nazionale sul cambiamento climatico. Nell'arco temporale 2010-2020, le filiere zootecniche italiane non solo non hanno contribuito al riscaldamento globale, ma hanno compensato con il raffreddamento dell’atmosfera le emissioni complessive delle filiere agricole, con i ruminanti (eccetto le bufale) che hanno contribuito maggiormente a questo effetto positivo.
Fonti:
L'articolo è un estratto dell'articolo pubblicato sulla rivista Italian Journal of Animal Sciences e può essere consultato integralmente al seguente link:
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